Vittorio
Foa
Il punto alto
A
volte mi si è chiesto (e mi sono chiesto) se nella mia
vita vi è stato un «punto alto», un momento
o una fase di piena realizzazione, un riferimento su cui misurare
me stesso. Per me, come per molti della mia generazione, la
memoria della Resistenza è quella di un punto alto, è
una immagine di gio-vinezza e di speranza. Col passare degli
anni quel riferimento si è come scolorito. Non so se
esso ha ceduto il posto ad altri « punti alti »
oppure se è venuto meno lo stesso bisogno di un punto
forte di riferimento. Questo mi sembra più probabile:
una memoria di intensa partecipazione si diluisce per-meando
di sé l'esistente, i valori antichi prendono forme diverse.
L'idea di un unico momento forte della vita che fissa la propria
identità è forse un artificio, un tentativo ingannevole
di affermare la propria continuità, la propria coerenza
vitale. Certo, fra l'autunno del 1943 e l'estate del 1944, a
Torino e poi a Milano, mi pare di avere vissuta una passione
politica e personale molto forte. Ma proprio quella Resistenza
cambiava la sua immagine nel tempo, cambiava la situazione e
cambiavano le idee. Dopo la Resistenza ho fatto molte cose;
posso pensare che vi sono momenti o fasi «deboli»?
La forza e la debolezza sono presenti in ogni momento. E poi,
siamo cosi sicuri che il punto forte, il punto alto, esprima
sempre un valore superiore? E poi ancora: quello che era alto
ieri è ancora alto oggi? Il tempo non è un giudice
attendibile, ma sconvolge i giudizi.
Per me personalmente la Resistenza non è stata solo una
passione. Essa mi ha insegnato cose che sono durate. La prima
è quella del governo dal basso, che si confronta e intreccia
con quello centrale, dall'alto, in una visuale integrata e integrale
della democrazia. La seconda è quella del carattere politico
della guerra di popolo e quindi anche del carattere politico
delle lotte del lavoro. Nel marzo 1944, con lo pseudonimo di
Carlo Inverni, avevo pubblicato un opuscolo sui partiti nella
nuova realtà italiana. In
esso invitavo il Comitato di Liberazione Nazionale che raggruppava
i cinque partiti antifascisti e operava clandestinamente, ad
assumere un ruolo autonomo di governo nelle regioni occupate
dal nemico. Era la posizione del Partito d'azione piemontese
che poi divenne linea azionista in tutto il Nord. L'autorità
centrale, il governo ufficiale, che era allora a Salerno e poi
sarebbe stato a Roma, non era contestato: ne era negato il carattere
esclusivo. Il Comitato dell'Alta Italia (allora ci eravamo dati
quel nome alquanto presuntuoso) non doveva fare dipende-re le
sue decisioni dal centro: il definitivo assetto istituzionale,
economico e sociale doveva, a liberazione avvenuta, essere definito
da un accordo fra il governo centrale e la Resistenza in attesa
di libere elezioni. Roma ci appariva allora come drammaticamente
esposta ai flussi di una restaurazione di tipo prefascista,
di un sistema elitario e tradizionalmente capitalistico.
Su questa linea nell'estate del 1944, insieme con Riccardo Lombardi
e Altiero Spinelli (e naturalmente col pieno consenso di Leo
Valiani), scrivemmo al Comitato di Liberazio-ne dell'Alta Italia
una Lettera aperta del Partito d'azione che chiedeva una formale
autolegittimazione del Comitato come soggetto di governo. La
proposta era molto radicale perché non riguardava solo
i comitati «politici», costruiti dai cinque partiti
antifascisti, ma comprendeva anche i comitati di base, espressioni
di diverse realtà sociali e quasi sempre dominati dai
comunisti. La proposta fu respinta; del resto essa era ormai
fuori tempo. Il governo di Roma, con il sostegno degli Alleati,
il cui apporto ci era ovviamente indispensabile, aveva già
ripreso in gran parte il controllo della situazione. Ma quella
linea di un controgoverno dal basso e dalla periferia come struttura
istituzionale, come elemento di democrazia diretta che non doveva
sostituire ma doveva integrare quella rappresentativa, mi era
entrata profondamente nella testa. E forse essa c'era già
prima, fin da quando a venti anni pensavo alla repubblica spagnola
del 1931. Nella Resistenza fui sempre agitato da questo “bisogno
di governo”.
Vittorio
Foa, Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, Torino,
Einaudi, 1991, p. 140-141.
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